Il Tempo, in sé fluire di momenti transeunti che vanno accolti, si apre a un "oltre" custode Eterno di valori trascendenti che vanno abitati. Vicende e realtà tendono alla suprema fusione nell'infinita Totalità, anima di ogni Speranza.

martedì 19 luglio 2022

 

 

 

35. LE RELZIONI TRA LE GENERAZIONI UMANE

TRA NEGAZIONISMO,  REVISIONISMO E INTEGRAZIONE CRITICA

 

 

          Per tutto il tempo dominato dalla pandemia causata dal Covid-19 si sono avuti (e si hanno tuttora) frequenti e significative manifestazioni di grave decadenza della civiltà, di preoccupante insensibilità umana e di pericolosa carenza di senso morale. Tralasciando, infatti, il fenomeno assurdo e paradossale dell’agnosticismo scientifico, del negazionismo ideologico e del fanatismo pseudoreligioso, si resta attoniti nel leggere  e nell’assistere a forme di caccia al colpevole dell’ignota e funesta calamità pandemica dilagante per l’intero pianeta; e si fa a gara nell’indicare qualcosa o qualcuno su cui scaricare la colpa, additando, ovviamente, categorie diverse da quella cui appartiene l’«accusatore», e si punta in particolare sulle generazioni più indifese: ora sui giovani “irresponsabili” ora sugli anziani “imprudenti” ora sui malati “abbandonati” ora sui migranti “inopportuni”. Come se non fossimo una sola e unica «famiglia» sociale di esseri umani. Nasce e s’impone, allora, l’amara e  dolorosa percezione che la frattura nei rapporti tra generazioni e tra stati di varie condizioni sociali è diventata un pauroso abisso, che tutto fagocita. E’ assurdo, infatti, che non si comprenda o non si voglia condividere una verità fattuale semplice, evidente e chiara: che in ogni società si è tutti uniti ed equamente coinvolti sia nelle evenienze favorevoli sia negli accadimenti negativi: quando, per esempio, soffrono particolarmente  i bambini e i giovani, nello stesso tempo soffrono a modo loro  anche gli adulti e gli anziani: e non c’è motivo, quindi, per mettere gli uni di fronte o, peggio, contro gli altri: una società, che non rispetta e non si cura dei suoi vecchi, non si preoccupa e non si cura nemmeno dei suoi giovani. Si tratta, in questi casi, di società ”malate”  di insensibilità umana e indifferenza sociale, la cui sola cifra è il maggiore e più immediato profitto, che ovviamente non dànno né assicurano i  giovani e gli anziani.

 

Questo, se si guarda e si considera la realtà dell’umanità limitatamente al breve – unico possibile, ma significativo – tratto spazio-temporale, in cui si svolge la singola esistenza personale più o meno lunga. Se, poi, si volge lo sguardo il più possibile lontano e si affissano gli occhi sugli accadimenti nell’intero spazio del pianeta terrestre e si esaminano le qualità esistenziali, che hanno caratterizzato (e caratterizzano tuttora) i rapporti tra le nazioni e le relazioni tra i popoli, l’animo umano - soprattutto in questo periodo veramente drammatico - raggela e la mente attonita si rifiuta di credere a ciò che gli occhi le presentano. Ammutolisce esterrefatto e nello stesso tempo si ribella titanicamente l’animo soprattutto di chi ha vissuto i suoi anni nel clima della libertà e della pace, cioè, di chi ha covato i valori irrinunciabili della dignità umana, di chi ha nutrito i sentimenti costruttivi della solidarietà e di chi crede nel reciproco sostegno generoso e non di rado del tutto gratuito. Non si fa riferimento tanto alle centinaia di luoghi attualmente teatro di assurde guerre fratricide (promosse e sostenute a distanza da pochi potenti e subìte e combattute da vicino dai molti malcapitati destinati a lottare e a morire), quanto alle cause vere e reali  – antropologicamente connaturate e ultime e sociologicamente radicate e profonde.- che originano e alimentano negli umani assurdi e inauditi istinti di odio cieco e di brama smisurata di prepotenza. Cioè, l’uomo è essenzialmente malvagio per sua propria natura? Per  realizzare totalmente i suoi progetti esistenziali ha bisogno di tormentare e dilaniare i suoi simili insieme a madre Natura nella sua totalità?

 

 E’ vero che già Thomas Hobbes – uno tra gli altri - aveva marchiato l’uomo per natura propria “lupo verso i suoi simili” e aveva denunciato conseguentemente lo stato naturale dell’umanità come “guerra di tutti contro tutti”: quindi, lotta continua indiscriminata, alimentata da cinici egoismi sfrenati, da insensati impulsi di strapotere e da incontrollato spirito di prepotenza e di sopravvivenza. Ma l’insistenza del  filosofo britannico su questa visione estremamente negativa mirava soprattutto ad evidenziare la necessità salvifica  d’una strutturazione organica del corpo sociale, per la quale urgevano un ordinamento politico condiviso (anche se coartatamente) e, quindi,  la presenza responsabilmente vigile d’un Potere assoluto e l’intervento rigorosamente inflessibile d’un Leviatano, che avrebbero saputo e potuto imbrigliare e incanalare ogni forza ed energia negative  in itinerari di sinergia positiva e collaborativa a vantaggio d’un graduale sviluppo generale. Da parte opposta c’imbattiamo nel pensiero del ginevrino Jean Jacques Rousseau, autentico “santone” della Natura soprattutto umana, per il quale è proprio la socializzazione degli uomini a corrompere l’originaria bontà naturale dell’umanità. La tesi proposta dal Rousseau, però, non pare convincere, a meno che la “socializzazione umana” sia dotata di poteri taumaturgici, grazie ai quali può trasformare sostanzialmente la realtà oggettiva anche umana. La convivenza – si argomenta a tal proposito - può ritenersi occasione (individualmente sgradita, ma necessaria nei fatti) per lo svelarsi e il manifestarsi di aspetti anche negativi, e persino aggressivi, connaturati nell’esistente umano. Tra queste opposte concezioni - paradossali e, quindi, difficili a comprendersi e a condividersi - si collocano molte altre visioni, che, ponendo l’accento su qualcuno dei molteplici e diversi aspetti del problema, tentano di sostenere e di dimostrare la multiforme e talora contraddittoria vita umana nel suo evolvere e i conseguenti suoi comportamenti.

 

 

Appare maggiormente persuasiva e, quindi, più facilmente condivisibile la proposta di coloro che ricercano e tentano di comprendere le modalità e le problematiche riguardanti il naturale e ineludibile passaggio generazionale, osservando e indagando i processi della «educabilità» dell’uomo e della «sociabilità» dei popoli. L’uomo – si nota e s’argomenta - non nasce “uomo” già fatto, ma “cucciolo” umano non ancora cresciuto e formato, ma che dovrà crescere e formarsi – gradualmente e faticosamente - fino a divenire uomo sostanzialmente «formato» mediante il superamento di ogni tappa della crescita globale in ogni dimensione costitutiva l’integrale natura dell’esistente umano: dimensione fisica, intellettiva, morale, sociale e politica. Ugualmente i popoli: affinché essi, da agglomerati indistinti di anonimi individui umani, divengano “società di cittadini” liberamente aggregati e responsabilmente impegnati tra loro, dovranno «crescere e rinnovarsi» tempestivamente nell’acquisizione e nella condivisione di comuni progetti di ordine civile, etico e, innanzitutto, giuridico, per realizzare concreti progressi di bene comune. Il singolo e le società, quindi, non nascono né esistono «hinc et nunc ex nihilo sui et obiecti», ma radicano nel passato ereditato e vivono, grazie anche ad esso, il loro presente storico e progettano il  loro agognato futuro ideale. Non c’è, quindi, presente solido e futuro credibile senza il passato capito e accolto con il rispetto profondo richiesro e dovutogli. Ma è proprio l’ineludibile legame vitale del presente col passato che sta alla base di antiche e recenti discussioni.

 

Le nuove generazioni – avvertiva con fierezza Francesco Bacone nel 1600, ripercorrendo le orme di una tradizione plurisecolare -  sono come dei nani sollevati e appoggiati sulle larghe e robuste spalle di un gigante:  i giovani, cioè, possono fruire . liberamente e felicemente - delle conquiste scientifiche e di civilizzazione ottenute dall’impegno e dal lavoro delle generazioni che li hanno preceduti e, ripartendo da esse, proseguono e arricchiscono l’umano  patrimonio scientifico e culturale, consegnandolo più copioso e più fertile ai loro posteri. La crescita civile e culturale dell’umanità, quindi, è una costruzione in diversi tempi e a più mani destinata a uomini sempre più pronti ad abitare proficuamente l’inesplorato e prezioso pianeta Terra e a convivere degnamente in solidale armonia con i loro simili.  Questa visione impastata d’ottimistica positività s’infrange, però, davanti alla situazione emblematicamente rappresentata in piena epoca illuministica dalla «Querelle des Anciens et des Modernes»: una un’inutile polemica tra dotti per rivendicare e dimostrare la maggiore rilevanza dell’antichità sulla modernità o il contrario. La cultura, quindi, vista come competizione da superare e vincere e non come emulazione da ammirare col desiderio di migliorare il presen te e il futuro.  Atteggiamento, questo, che rivela il dominio di un pericoloso individualismo, che nuoce al singolo, che da solo non ha prospettive di fecondità, e alla comunità umana, che resta impoverita.

 

 

 

 

giovedì 27 gennaio 2022

 

DEMOCRAZIA - PARTITI POLITICI - SOVRANITA’ POPOLARE


Pubblicato su "IUNCTUTAE"


 

Il quadro ideologico e il panorama della situazione politica italiana non sono certo rassicuranti; lo scenario presentato dalle condizioni sociali ed economiche dei cittadini è davvero preoccupante. Le offerte formative e le pianificazioni operative della maggior parte degli attori politici appaiono piuttosto deboli e inadeguate, attente per lo più a questioni settoriali e di breve respiro, pur nella loro indiscutibile intrinseca importanza; anche la vita interna dei partiti politici non invia messaggi confortanti di responsabilità collettiva né fornisce esempi di atteggiamenti costruttivi; la libertà dei cittadini risulta sostanzialmente limitata, povera, talora perfino negata nella vita reale. Vacillano fondamenti importanti della vita privata e pubblica, anche se ben consolidati dalla tradizione. Il ritmo delle richieste di trasformazioni è divenuto così frenetico e caotico da impossessarsi dell’animo dei cittadini, i quali, di conseguenza, discutono acriticamente e frettolosamente tutto, senza prendersi il tempo giusto per riflettere, valutare e scegliere. In tale situazione caotica, perciò, mancano le condizioni necessarie per una chiara visione complessiva dei problemi, idonea a trovarne soluzioni assennate e utili. In simili momenti difficili  vengono meno il controllo delle volontà (con cui solamente si preserva il senso della concretezza() e il dominio sugli istinti dell’egoismo e del rancore (con cui solamente si salvaguarda la lucidità della razionalità). In questi ultimi anni, invece, le menti dei cittadini sono offuscate e le loro coscienze sono smarrite, poiché assistono, al posto del dialogo civile e del confronto politico, a scontri passionali e a lotte funeste: come, la dissennata denigrazione delle autorità statuali, i furiosi tentativi di delegittimazione degli istituti governativi, l’assalto impulsivo al potere legislativo del Parlamento, denunciato di dilettantismo e da qualche parte minacciato apertamente di inevitabile estinzione per la presunta sua inconcludente inefficienza.

 

Per un futuro auspicabile per il nostro Paese s’impone la necessità d’una pausa di riflessione pacata e positiva, al fine di restaurare l’unità degli spiriti e ripristinare le difese naturali della rettitudine morale, della libertà sociale e dell’etica politica. Qualità, queste, garantite soltanto dalla libertà di pensiero e dall’autonomia di giudizio morale critico. Quando, infatti, lo spirito partitico arriva a prevalere su questi punti, emerge allora cupo e minaccioso il fanatismo dei singoli e dei gruppi, con tutte le sue nefaste conseguenze. La crescita della vita delle società e degli Stati è, ovviamente, il risultato anche del progresso sociale e dell’avanzamento culturale dei popoli, i quali non vanno guidati faziosamente e, peggio, violentemente fomentati, ma tempestivamente educati e saggiamente formati, affinchè diventino un insieme di cittadini operosi, corresponsabili e coerenti, cioè un ‘popolo’. Questo compito formativo è affidato a tutte le agenzie formative: dalla famiglia alla scuola, dall’associazionismo laico e religioso ai partiti politici, dagli Enti Locali a tutte le Autorità governative e statuali.

 

Nel perseguimento di quest’opera di formazione sociale e politica del popolo è sempre sottesa una concezione generale di uomo, di società e di stato. Ora, da tempo ormai non si possono più invocare strutture sociali e ordinamenti statuali ispirati esclusivamente alle dottrine d’un collettivismo acritico, astratto e per certi aspetti irrealizzabile: ne deriverebbero inevitabilmente l’assolutizzazione della società e dello Stato, l’immolazione della concretezza delle individualità singole e degli organismi sociali intermedi, premessa rischiosa di svolgimenti pubblici ambigui e d’imprevedibili esiti totalitari. Ma non sono ugualmente i tempi delle altrettanto teoriche rivendicazioni delle dottrine liberali e dell’ottimistico dominio dell’economia liberista: l’entusiastica idolatria del mito del libero mercato, profeta invocato di benessere individuale e collettivo, ha già generato gravi situazioni d’ingiustizia sociale disumana e d’intollerante assoggettamento culturale.

 

Il cittadino delle democrazie contemporanee, di fatto, non è né il ‘socialista’ devotamente sottomesso, né il ‘liberale’ osservante senza riserve, e nemmeno il testimone d’una presunta ‘democrazia popolare’. L’odierno cittadino democratico, in realtà, è un individuo indifferente al valore delle virtù umane, sordo al richiamo degli ideali etici, insensibile alle istanze dei doveri sociali e politici. L’uomo democratico, con cui bisogna fare i conti oggi, in concreto, è sorretto e motivato unicamente dalla categoria del tornaconto privato, da raggiungere esclusivamente mediante l’astuto calcolo dell’interesse personale, prevedibile con certezza nello scambio da proporre o da valutare o da accettare. Del resto, già Alexis de Tocqueville aveva tratteggiato i connotati di questo moderno cittadino: insofferente d’ogni regola e disciplina; convinto sostenitore della spontaneità della natura e soprattutto dell’umanità; ottimistico profeta dell’autosoluzione d’ogni congiuntura; paladino eroico della singolarità d’ogni uomo, ritenuta unica titolare d’ogni diritto senza alcun corrispettivo dovere. E’ necessario, pertanto, indagare la possibilità d’una concezione, che conduca a una democrazia autentica e umana, che superi, cioè, da una parte l’idolatria dello stato e, dall’altra parte, il calcolo combinato di interessi privatistici. Si tratta di ricercare una cultura, che concili in armonia le diversità, evitando le opposte pericolose soluzioni dell’omologazione e dell’esclusione, in un contesto di condivisa solidarietà.

 

Il ‘popolo’ italiano, tutto considerato, potrebbe essere già ben incamminato per questa strada, grazie alla visione dell’uomo, su cui è fondata la Costituzione Repubblicana, nella quale il cittadino è valutato come persona integrale in sé e solidale con gli altri. Siccome in questi ultimi decenni essa è stata dimenticata, talora anche svilita, spesso chiamata in causa solo reclamarne la revisione e addirittura la riscrittura, forse sarebbe utile approfondirne almeno alcuni valori e principi sottesi, tenendo nella giusta considerazione che essi sono il risultato della collaborazione delle tre grandi anime culturali, che hanno contribuito alla ricostruzione fisica e morale dell’Italia dopo la guerra: l’anima socialista, quella liberale e quella cattolica. Si tratta di alcuni articoli, in cui si statuiscono in primo luogo la centralità della persona umana nell’organizzazione dello Stato in tutte le sue attività e, in secondo luogo, un sistema di partecipazione sociale ed economica ispirato a solidarietà nazionale e internazionale.

 

Per quest’ultimo aspetto, basta rileggere e ripensare i vari ambiti, in cui sono chiamati i cittadini a operare come singoli e come popolo. In primo luogo, il lavoro, fondamento della Repubblica Democratica Italiana, considerato sì come rapporto economico, ma rivendicato anche e soprattutto come valore umano e sociale; quindi, non come criterio di appartenenza a una delle classi sociali, ma come diritto di realizzare la propria vita personale (artt. 1 e 4) e di ottemperare, come cittadini, ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” nell’ambito della nazione (art. 2) e nel contesto internazionale (art. 10). La solidarietà viene estesa, poi, a orizzonti sempre più vasti, fino a farli coincidere con i confini del mondo: l’Italia, “in condizioni di parità con gli altri Stati, consente alle limitazioni di sovranità necessarie” per realizzare “la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11). D’importanza non meno rilevante è, ancora, il riferimento al principio di solidarietà, richiesto proprio dalla dignità dell’uomo, a proposito della tutela della salute, dichiarata “diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32) e, infine, nella dichiarazione del diritto di una “scuola aperta a tutti” (art. 34).

 

Il rispetto della persona umana, a sua volta, dev’essere esteso a tutti i cittadini, in quanto “hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3). Essi, inoltre, come unitario popolo italiano, sono gli unici titolari della sovranità nazionale. E’ importante, allora, ripensare – specialmente in questi ultimi tempi - le motivazioni e le finalità inerenti agli articoli 49 e 67, in cui è sancita con chiarezza la forma di democrazia, che i Padri Costituenti hanno progettato: in Italia la democrazia non poteva essere né doveva divenire oligarchia, ma rimanere sempre e comunque “governo del popolo”, che andava posto nelle condizioni concrete di esercitare la propria sovranità in modo continuativo e in ogni occasione, e non soltanto il giorno del voto; si stabilì, allora, la norma del voto libero, uguale, personale e segreto, grazie al quale ogni cittadino, in possesso dei diritti richiesti, in condizione di libertà e di uguaglianza, può (e deve) eleggere il suo rappresentante, che legifererà per delega in ogni situazione particolare, ma sempre nella prospettiva dell’interesse dell’intera Nazione. In concreto i Costituenti immaginarono e stabilirono la libera formazione e la responsabile operosità dei partiti politici. Il combinato disposto degli articoli 49 e 67, pertanto, potrebbe costituire la chiave di lettura di tutto il tessuto strutturale della democrazia italiana: “Tutti i cittadini – è scritto nell’articolo 49 - hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”; ovviamente mediante il proprio eletto, il quale, sancisce l’articolo 67, “rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, essendo il suo mandato di natura esclusivamente politica.

 

Il partito politico, quindi, nelle intenzioni dei Costituenti, è la struttura politica realizzabile in ogni luogo dell’intero territorio nazionale, in cui i cittadini partecipano e discutono idee, proposte, iniziative, per formulare progetti di scelte politiche. Da ciò scaturiscono gli elementi costitutivi del partito politico, cioè: libertà di associazione, pluralità di associazione, adozione del metodo democratico nella vita organizzativa interna d’ogni partito e nei rapporti tra di loro e nei confronti con tutti i cittadini, libero contributo di ciascun partito per determinare la politica nazionale. La ragion d’essere dei partiti è la formazione della coscienza politica dei cittadini, che dovranno scegliere tra i più meritevoli i propri “rappresentanti”. In concreto tutto ciò è affidato alle disposizioni delle leggi ordinarie e particolarmente a quelle che disciplinano le competizioni elettorali. Se questo modello costituzionale fosse attuato, si creerebbero situazioni, in cui i dibattiti di idee e le proposte d’iniziative operative fra tutti i cittadini porterebbero sicuramente al “libero concorso” di tutti nella formazione delle scelte politiche nelle diverse istituzioni della Repubblica nell’ossequio dei tre poteri “sovrani”: legislativo, esecutivo, giudiziario. Nella realtà odierna ciò non succede. Ed è facile comprendere che, se i partiti non vivono nell’alveo delle regole democratiche, ma si trasformano in comitati d’interessi particolari, se non addirittura personali, allora, tradendo la Carta Costituzionale, diventano organizzazioni oligarchiche, guidate (e talora dominate) da gruppi dirigenti preoccupati di conservare la propria posizione egemonica. Sarà inevitabile, allora, che siano i dirigenti di partito a controllare l’accesso di nuovi ‘tesserati’, ovviamente non sempre veramente degni e capaci Ma questo è la negazione della democrazia popolare, perché si spezza l’anello che lega la sovranità popolare alla democrazia dei partiti e questa alla democrazia delle istituzioni pubbliche. E’ il trionfo della partitocrazia, corruzione pessima della democrazia. La situazione della democrazia italiana oggi è sotto gli occhi di tutti. Aldo Moro nel 69, nel pieno di un grave sconvolgimento del sistema politico, avvertiva: «Questa crisi va fronteggiata, rendendo acuta la sensibilità dei partiti, aperta la loro azione, ricco di riflessione e di adesione il loro modo di essere nella realtà sociale. Non si tratta, dunque, di annullare i partiti, ma di renderli consapevoli del limite che scaturisce da una più grande ricchezza e vivezza della vita sociale. Riconosciuto, però, il limite, nel quale del resto è implicita una straordinaria occasione di arricchimento e di umanizzazione, dev'essere fermamente riconfermata la ragion d'essere dei partiti, il loro naturale pluralismo, la dialettica democratica della quale essi sono parte, la loro distinzione, la loro polemica, il loro convergere come il loro contrastare».

 

Non è compito della filosofia prevedere se e quando si possano superare e vincere errori e distorsioni. La filosofia può solo additarli e indicare la via meno incerta della verità politica. Ma tutto presuppone una trasformazione culturale radicale e un audace ritorno alle fonti vere dello spirito anche della Carta Costituzionale. Il compito tocca tutti indistintamente, come uomini e come cittadini: nessuno può sottrarsi alle proprie responsabilità, che richiedono coraggio, azione e lotta, ripudio d’ogni forma di neutralità e accettazione di una parte da sostenere.

 

martedì 11 gennaio 2022


 

FEDELTA’ POLITICA E COERENZA MORALE


Il Governo che impone al Parlamento il voto palese, motivandolo come atto richiesto dall’importanza e dall’urgenza del provvedimento presentato. Il Parlamento che ne contesta le circostanze, esigendo la regolarità e rivendicando la legittimità del voto segreto a tutela della propria autonomia legislativa. Da una parte il voto palese rappresentato (o comunque fatto percepire) come costrizione ricattatoria; dall’altra parte il voto segreto temuto (o minacciato) come opportunità di ritorsioni e occasione di resa dei conti. Da una parte i partiti, che invocano  e pretendono la fedeltà politica dei parlamentari da loro fatti eleggere; dall’altra parte i parlamentari che rivendicano il rispetto del loro mandato popolare e della propria coscienza. La questione potrebbe ridursi a un’interessante dissertazione astratta sul rapporto politica-morale, se non coinvolgesse il destino della democrazia repubblicana italiana, la ragion d’essere dei partiti politici, la sorte dell’equità civile, la difesa della giustizia sociale, la tutela del vivere quotidiano dei cittadini. Le Istituzioni, pertanto, garanti massime della democrazia italiana, rischiano di diventare affossatori di democrazia e usurpatori di sovranità popolare; e questo proprio mentre s’adoperano per attuare fondamentali riforme istituzionali (senato, regioni, provincie, legge elettorale, riforma dl sistema giudiziario, assetti ecomico-finanziari),

 

I cittadini italiani, in verità, assistono per lo più disincantati e scettici alle vicende  della politica italiana interna ed estera. Essi, infatti, sanno correttamente che l’idea e l’attuazione delle democrazie col tempo si sono evolute e continuano a evolversi, lasciando giustamente la sfera dell’astrattezza, per immergersi nella concretezza del governo dei popoli. Sono anche convinti, però, che da quest’evoluzione non scaturisce (e non dovrebbe mai scaturire), quale conseguenza inevitabile, un decadimento dell’idea e dell’etica, che sostanziano ogni democrazia autentica: questa, infatti, prima d’essere una tra le possibili forme di governo, è in primo luogo una visione generale della vita e uno stile di condotta privata e pubblica. Da qui il loro convincimento che anche l’attuale “democrazia del numero” è uno svolgimento  positivo e costruttivo delle democrazie, a patto, però, ne restino salvaguardati i valori etici e gli obiettivi politici caratterizzanti. Ciò che oggi preoccupa i cittadini elettori (votanti e non-votanti) è il dover assistere al deterioramento della morale individuale e il decadimento dell’etica pubblica, come indicano alcuni segnali pericolosi. Si pensi, per esempio, alla trasformazione del ruolo degli eletti che ha alterato sostanzialmente anche il dettato costituzionale. Ovviamente anche la Costituzione non è testo sacro ispirato dall’alto; può, quindi, anzi deve essere aggiornata, adeguata, emendata. E’ necessario, però, che ciò sia fatto da chi ne abbia avuto mandato specifico e, soprattutto, con indiscutibile lealtà d’intenti ed evidente trasparenza di procedimenti.

 

Ed è proprio questo che genera perplessità negli italiani. Assistono, infatti, all’affannosa corsa a “far passare” provvedimenti proposti come strumenti d’una maggiore efficienza gestionale; in realtà, però, benché propugnati come mezzi di “stabilità e crescita”, di fatto implicano modiche sostanziali di princìpi essenziali, peraltro sanciti come fondamentali dalla Costituzione. Senza nascondersi che è molto incerto che tutto ciò arrechi qualche utilità alla vita del cittadino. A confermare la diffidenza dell’italiano politicamente “laico” (quindi, osservatore disinteressato, imparziale e sereno) non è solo ciò su cui si legifera, ma anche il modo con cui in questi ultimi tempi si opera in politica, sia nei palazzi e sia nelle piazze. Infastidiscono e suscitano sospetto l’arroganza dei partiti che il numero dei votanti di turno designa “maggioritari” e la baldanza di dirigenti, che rivendicano per sé il compito di decidere contenuti, tempi e modi della vita pubblica, sempre vigili a salvaguardarla dagl’intralci provenienti sia dai partiti indicati “minoritari” dal numero dei votanti sia da chi all’interno della cosiddetta “coalizione di maggioranza” tenti di discostarsi dalla linea dettata dai propri dirigenti. Ovviamente s’invoca sempre la necessità del dialogo aperto e disponibile a ogni contributo, salvo poi a non rintracciarne mai alcuno valido e appropriato. Inoltre, non si perde occasione per sottolineare e recriminare l’importante numero degli elettori non votanti; addirittura nei loro confronti s’è coniato il termine “astensionisti”, come se il non recarsi alle urne sia sempre e comunque una scelta d’irresponsabile disinteresse e non (anche e soprattutto) una decisione meditata, sofferta e perfino obbligata dai fatti, secondo l’insegnamento anche di Platone.

 

Si conosce da tutti la necessità della tempestività risoluta necessaria ai governanti. Ma già cinque secoli fa il Machiavelli, commentando e suggerendo l’antico pensiero di Tito Livio, metteva in risalto il valore della “imitazione” del passato e insegnava, anche a tal fine, in cosa doveva consistere la “virtù” del governante efficiente: saggio equilibrio di perspicacia dell’intelligenza. per comprendere ogni situazione, e di forza volitiva sicura, ma sempre suggerita e valutata dalla complessità dei problemi. Ma questo richiede il contributo di tutti. Da tutti, quindi, si richiede un momento di autocritica. Di primaria importanza, per esempio, è il ponderare le conseguenze possibili dell’uso attuale del voto segreto e del voto palese, in quanto i rischi cui si può incorrere non sembrano né pochi, né astratti, né lontani. Da una parte, infatti il voto segreto da espressione di responsabilità politica e da salvaguardia di libertà di coscienza e divenuto circostanza per l’esplosione d’inespressi risentimenti e occasione per la resa dei conti; il voto palese, dall’altra parte, da strumento legislativo condiviso, spedito e limpido è divenuto strumento di ricatto e di coercizione.

 

Tralasciando considerazioni d’altra natura, è innegabile che in questo modo risultano confusi i confini e stravolti i ruoli tra fedeltà politica e coscienza morale e si generano pericolosi equivoci avallati spesso da colpevoli silenzi. Non si tratta di sconfessare e capovolgere la secolare conquista di Machiavelli, rivendicando oggi l’autonomia della morale dall’egemonia della politica; si tratta di rinverdire con nuova linfa vitale la deontologia politica, cioè riscoprire le ragioni etiche, che danno senso all’azione politica, da parte di tutti i cittadini, ognuno nel ruolo che ha scelto o che gli è stato affidato. Sopravvalutare le ragioni della politica significherebbe valicare i confini dello stato etico: sarebbe utile, allora, meditare sulle circostanze e sui contenuti del “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, scritto nel 1925 da Benedetto Croce. Sopravvalutare il ruolo delle esigenze del privato significherebbe assolutizzare gli egoismi, avversari d’ogni possibile azione veramente politica. Alcide De Gasperi – che seppe perché, quando e come dedicarsi alla politica e intuì quando e come uscirne - insegna che il politico è democratico quando possiede e pratica il “metodo democratico”, cioè quando cerca il dialogo e rispetta la deontologia propria della politica: un governante ottimo – ammonisce – rispetta i valori con fedeltà costante e grande coerenza. Queste, però,  non un valore in sè e per sè, ma sempre agganciate a una scelta, che abbia valore in sé e che ne fondi la validità.

A battere un terreno più concreto ci indirizza Enrico Berlinguer, audace innovatore politico: “I partiti – dichiara già nel 1981 a Eugenio Scalfari - non fanno più politica, e questa è l’origine dei malanni d’Italia”. E Aldo Moro, martire per la coerenza, avverte: “Per fare le cose, occorre tutto il tempo che occorre” e raccomanda il rispetto del ruolo degli organi intermedi: “Il decentramento nella gestione degli interessi comuni – ammonisce - è uno strumento dell’avvicinamento del potere agli amministrati e dell’umanizzazione di esso come garanzia del suo retto fine”. Insegnamenti necessari anche nei nostri tempi. In momenti di particolare smarrimento ci soccorre comunque l’esperienza di Mahatma Gandhi: “Meglio un milione di volte sembrare infedeli agli occhi del mondo che esserlo verso noi stessi”.